La leggenda di Akbar e Mariam. Ideata e scritta da Marika Guerrini
…quando il regno del raja di Ambér, in Rajastan, fu minacciato da un giovane e valoroso condottiero al comando del suo esercito, Mariam, primogenita del raja, era solo una fanciulla.

La minaccia però non durò a lungo, ben presto il condottiero s’accorse che nulla avrebbe potuto contro la fierezza ed il coraggio dei guerrieri rajput. S’accorse che l’unica via di conquista per espandere il suo regno, altro non avrebbe potuto essere che un’alleanza. Si mosse allora in tal senso ottenendo così, dal raja di Ambér la mano della primogenita.
Quel che il condottiero non sapeva però era quanto in Mariam scorresse sangue guerriero, difficile da sottomettere, infatti, alla notizia della decisione paterna, Mariam si guardò dall’obbedire e, in silenzio, fuori da ogni cerimoniale di corte, dalla fida ancella personale mandò a chiamare il condottiero.
Se vuoi ch’io divenga tua sposa, allo scadere del terzo giorno precedente alle nozze, dovrai portarmi in dono la collana dei sette pianeti, disse e continuò: nessun orafo potrà né dovrà costruirla, essa esiste, tu la cercherai per me. La troverai.

Il condottiero, re figlio di re, veniva da una terra in cui nessuna donna, tanto più di nobile stirpe, avrebbe osato porre condizioni al volere del proprio padre o a quello del futuro sposo. Fu infatti colpito dalla fierezza di Mariam e, re figlio di re, come un qualunque suddito, data parola d’obbedienza si licenziò.
Il tempo per la cerca era breve, ventisette giorni, ma il giovane che ben altre imprese, a suo avviso più difficili, aveva già compiuto, non se ne preoccupò.
Tornato al suo regno, trascorse i primi sette giorni ad immaginare dove potesse trovarsi la collana dei sette pianeti, ma senza risultato. La notte del settimo giorno fece un sogno.
Sognò di trovarsi in riva ad un grande fiume a pescare. Lì, nel sollevare l’amo dall’acqua, un serpente di enormi dimensioni ad esso agganciato, si attorcigliò ai suoi piedi. Il serpente portava inciso sul capo il disegno d’un falco.

Al risveglio il condottiero ricordò il sogno, era certo avesse un preciso significato, ma quale? Così, benché il sogno fosse indecifrabile, pensò che fosse giunto il tempo di partire alla ricerca della collana. Avvertì i consiglieri, dispose ordini, indossò abiti da pellegrino e partì.
Non conosceva quella terra, gli era estranea, pensò di seguire il proprio intuito, quindi attraversò il Paese in lungo e in largo. Si fermò in città, villaggi, visitò templi, capanne, bazaar, castelli, giunse persino ai confini del grande deserto del Thar. Nulla.
Chiese ad indovini e saggi, maghi, mercanti e pellegrini, chiunque incontrasse sulla via. Che fosse notte o giorno. Nessuna traccia della collana dei sette pianeti, né del luogo del sogno.
Lungo il cammino, mai permise alla fatica di vincere, tanto meno allo scoraggiamento. Re figlio di re, doveva trovare la collana per il suo Regno.
Quando avvertiva le forze venir meno, calcava ancor più il passo sulla via e con caparbietà faceva ancor più domande, come solo un re sa fare.
Si riposava soltanto per riprender fiato e, se questo non bastava, riandava col ricordo agli antenati, condottieri anch’essi, anch’essi re. Riandava alla sua nascita oltre i confini di quel regno sconosciuto, nell’attendamento d’un lontano deserto. Riportava poi il ricordo a quella nomade vita ch’era stata la sua poco prima di ora. Riportava il ricordo alle battaglie, alle vittorie. Mai alle sconfitte. Così, uscire vincitore dalla cerca, diveniva certezza.

I giorni, nel frattempo, si susseguivano con innaturale celerità agli occhi del condottiero finché giunse la notte del ventunesimo giorno. Quella notte i gloriosi ricordi non bastarono a placare la fatica, né il passo riuscì ad annullarla. Il giovane condottiero, sfinito, volle concedersi riposo in una locanda.
Fu lì, in quella locanda, in quella notte, avvolto da lenzuola inadatte ad un re, che un altro sogno s’affacciò alla sua mente o all’anima, chissà!
Sognò di trovarsi in un luogo verdeggiante tra il placido sciacquio di laghetti artificiali e canti d’uccelli colorati mentre fontane zampillanti rinfrescavano l’aria. In questa bellezza grandi palazzi d’arenaria rossa prendevano spazio, palazzi merlati da cui s’innalzavano torri, su cui s’adagiavano cupole.
Tra essi, uno si distingueva per incredibile bellezza, un palazzo a cui la sconosciuta gente del sogno dava nome Sunchera Mahal, che in lingua locale vuol dire: Casa Dorata.
Al risveglio da questo sogno, il giovane condottiero, re figlio di re, provò a ricordare se mai conoscesse quel luogo, ma non era così.
Si convinse allora ch’esso avesse a che fare con la collana: sì, la collana dev’essere lì, pensò, nel luogo del sogno, dovrò cercare e trovare quel luogo.
Convinto di questo riprese il cammino, stavolta a ritroso. A tutti descrisse il luogo della ricerca, ma la risposta era sempre la stessa, il luogo continuava ad essere a tutti sconosciuto, come la collana dei sette pianeti, di cui anche inutilmente chiedeva. Di entrambe alcuna traccia.
Intanto giorni seguivano a giorni e notti a notti, finché all’alba di uno di quei giorni, riprendendo il cammino, il giovane condottiero s’accorse di qualcosa che stava prendendo forma in lui, qualcosa di sconosciuto, come un sentimento mai provato prima, accompagnato da un sottile desiderio, ma a tutto questo non sapeva dare nome. Il giovane condottiero, re figlio di re, s’avvide senza saperlo che quell’esser pellegrino iniziava a piacergli e quando la mente andava al rientro nel suo regno ora lontano, scacciava l’idea e, con gioia, riprendeva a parlare con la gente di quella terra, quella gente coraggiosa, quella gente che aveva osato deviare il suo passo. Così, con questo sentore privo di nome continuò il cammino, finché al crepuscolo di un altro di quei giorni non seppe più dove andare, dove cercare, ogni luogo di quel regno aveva visitato, fu allora che, seduto sul ciglio d’una strada polverosa, sospettò un nome per quel sentore che albergava in lui, che non sapeva cosa fosse. E si meravigliò. Quel qualcosa fino ad allora priva di nome, era forse un sentimento d’amore per quella terra, quella gente, un sentimento ancora in boccio, che lo spingeva a parlare con quel popolo, a chiedere della collana pur conoscendo la risposta? Il condottiero negò a se stesso la conferma, poi decise di dar voce a quel senso del dovere che da giorni aveva trascurato, che lo richiamava al suo Regno.

Il sole incendiava il tramonto, la via del ritorno era quasi tutta alle sue spalle, quando il condottiero incontrò un mendicante.
Il vecchio se ne stava sul ciglio della strada come lui ore addietro, se ne stava come in attesa. Il condottiero non pote’ farne a meno, pose anche a lui la domanda sul luogo del sogno, sulla collana.
Sahib, rispose il mendicante, tu stai cercando quel che ancora non esiste, stai cercando il futuro.
Cosa intendi dire? Replicò il condottiero.
Dico che gli Dei t’hanno mostrato il futuro, disse il mendicante e continuò, il luogo che cerchi sarà frutto di un amore ancora sconosciuto.
Io non credo negli Dei e per l’amore c’è tempo, il giovane si indignò, perché i tuoi Dei avrebbero dovuto fare questo per me?
Tu non credi in loro, ma loro credono in te, quanto all’amore poi, neppure lo conosci, o meglio, non lo riconosci, come puoi dire c’è tempo e intanto negarlo?
Alle parole serene, sicure del vecchio, il condottiero non seppe rispondere, ma poiché l’orgoglio e la tenacia facevano parte della sua natura, riprese la domanda sulla collana.
Allora, vecchio, disse ironico, visto che sai tutto, cosa sai dirmi della collana dei sette pianeti?
Dico che essa non è in quel luogo…vi sarà.
E dov’è ora? chiese ancora. Ma nel tempo della domanda il mendicante era già lontano.

Scadeva quella notte il venticinquesimo giorno.
Malgrado lo negasse a se stesso, l’audacia del condottiero iniziò a vacillare, l’orgoglio con essa iniziò a bruciare come la più profonda delle ferite e sì che tante ne aveva riportate sui campi di battaglia. Continuò lungo la via del ritorno, ma i suoi passi non calcavano più il terreno, né faceva domande. In questo stato giunse sulle rive della Yamuna, il grande fiume confine tra il suo ed il Regno del raja di Amber.
Costeggiando la Yamuna sentì improvviso il desiderio di doversi fermare, non per stanchezza, quella aveva superato il limite, non l’avvertiva più. Si fermò, si sedette sotto un albero, un grande albero come solo in quel paese crescono. I suoi pensieri presero a vagare tra un mancato sposalizio che avrebbe annullato l’alleanza e una guerra che ne avrebbe preso il posto, poi, all’improvviso, gli tornarono alla mente le parole del mendicante, con esse, altri pensieri iniziarono a prendere forma.
Strano paese questo, gli uomini credono così tanto negli dei da ravvisare il tempo in essi, prese a pensare e, così pensando, iniziò a ripercorrere le immagini di trascorsi giorni.
Man mano che esse si svolgevano l’una nell’altra, il condottiero vedeva la bellezza di quel popolo. Non solo valore, coraggio in battaglia, fierezza ma quel senso di libertà, di serenità che traspariva dai volti, di dignità anche nella povertà che egli non aveva mai trovato in altre genti.

Si pose mille domande.
Da cosa nasce la forza che guida la loro vita, che li avvicina alle loro divinità. Da dove nasce la loro saggezza che pare trovarsi ovunque. Poi un pensiero lo sfiorò: se la saggezza pareva appartenere a quella terra ed ai suoi uomini, era forse nella loro fede la verità?
E mentre poneva le domande a se stesso, quel sentore a cui non aveva voluto dare nome, si faceva sempre più presente, fu così che le domande a se stesso svelarono il sentimento d’amore per quel popolo straniero che non avvertiva più sconosciuto. E il sentimento sempre più s’insinuò in lui. Malgrado la giovane età, si percepì come un padre verso i propri figli. Desiderò essere loro re…ne sarebbe stato fiero.
Fu lì che quel re figlio di re, per la prima volta ammise a se stesso di provare un sentimento d’amore, che, a sua insaputa, in realtà lo accompagnava sin dalla nascita.
Assorto in questa novità continuò a star seduto sotto l’albero quando, ad un tratto, lo sguardo gli andò su di una radice che fuoriusciva dal terreno, aveva la forma di un serpente. In quello stesso istante un falco si posò sulla radice.
Il giovane trasalì, le immagini del primo sogno tornarono: il serpente…il falco.
Si alzò di scatto e senza pensare iniziò a cercare intorno al grande albero. Cercò, cercò anche scavando con le mani nel terreno. Poi una voce alle sue spalle:
E’ questo che cerchi?
Si voltò, il mendicante era lì, con tra le mani una ciotola da pescatore.
Il giovane non riuscì ad emettere suono, solo guardò la ciotola, il vecchio alzò il coperchio, all’interno una collana, la prese e gliela porse. Su di una catena d’oro, sette piccole piastre di smalto bianco tempestate di rubini reggevano sette purissimi smeraldi.
Il condottiero, re figlio di re, era avvezzo ai gioielli, ma questa collana era ineguagliabile.
Riavutosi dallo stupore: dove l’hai trovata?
Non l’ho trovata, rispose il mendicante, era chiaro che non volesse dire altro. Ma il condottiero voleva sapere e, prendendo la collana: cosa significa tutto questo? Disse.
Vivi la vita che gli dei t’hanno assegnata e…non chiedere altro.
Così detto, il mendicante com’era venuto repentino s’allontanò.
Allo scadere del ventisettesimo giorno, Jalal-ud-din Mohammad Akbar, questo il nome del giovane condottiero, si recò dalla principessa Mariam di Ambér che, austera malgrado i suoi quindici anni, lo attendeva.
Non aveva mai dubitato ch’egli tornasse vincitore.
Le nozze furono celebrate. L’alleanza firmata. La guerra scongiurata.
Il regno di Akbar allargò ancor più i suoi confini, divenne un vero impero.
Un impero che nel tempo si ampliò più ed ancor più, mentre Akbar divenne sempre più saggio.
Un giorno di quel tempo, dinanzi alle lotte di religione che minacciavano di dividere l’Impero, la principessa Mariam suggerì ad Akbar il da farsi dicendo: Se, come tu dici e provi, la saggezza può trovarsi ovunque, anche la verità si trova ovunque, nascosta in tutte le religioni.
Fu così che Mariam, la principessa del tempo, come il popolo la chiamava, rispose alla domanda che Akbar s’era posto anni addietro in riva alla Yamuna, quando lei, per propria natura, già conosceva lo svolgersi del tempo che sarebbe venuto.
Fu così che la città rosa, il luogo del sogno di quel re figlio di re, fu costruita per ospitare saggi d’oriente e d’occidente, perché pensieri diversi di popoli diversi s’incontrassero, perché religioni diverse si incontrassero … perché s’incontrasse la storia degli uomini.

Nella città rosa anche il Sunchera Mahal, la Casa Dorata, fu fatta costruire dall’imperatore per la sua sposa Mariam che oggi il mondo conosce col nome di Jodha e che, allora, nel frattempo gli aveva dato un figlio.
La dinastia dell’Impero Moghul avrebbe segnato il cammino di quella terra nei tempi a venire.
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