Cavalli selvaggi. Massoud l’Afghano, il tulipano dell’Hindu Kush

Rubrica di Radici nel Mondo “Da Oriente a Occidente”

Brano Tratto da “Massoud l’Afghano il tulipano dell’Hindu Kush”

di Marika Guerrini.

Fotografie di Barat Ali Batoor

…cavalli selvaggi al galoppo attraversavano deserti, al galoppo lambivano pendici di monti, al galoppo segnavano confini.
Ahmad li seguì.
Li seguì lungo le parole pronunciate dal padre di suo padre, in esse vide snodarsi i giorni dell’infanzia, sereni li vide raccogliersi in settimane, mesi, anni.
Cavalli selvaggi al galoppo segnavano confini per scomporli, di nuovo segnarli, poi ancora e ancora come fatto da sempre.
Ahmad a ritroso li seguì.
Rami di albero lungo le piste, s’apriva a ventaglio la via della seta, antica, attuale. S’apriva da oriente a occidente, da occidente ad oriente. Da sempre.
In quel sempre carovane s’allungavano su di essa, alla frusta dei venti invernali, preziose, s’irrigidivano, lente si stiravano alla polvere del deserto.
La stessa bianca polvere che spine di piante quali magneti, catturavano per ridonarla alla terra sì che fresca neve. Imbiancandola.
Cavalli selvaggi al galoppo attraversavano quella terra bianca da sempre.

Ora essa si spiegava allo sguardo di Ahmad in processioni di cammelli che facevano scudo al sole del tramonto, che, ombra, disegnavano dune mentre il gelo dei monti fermava ogni altra cosa tranne la certezza del suo stemperarsi, sicuro, per volere di Dio.
Si spiegava in primavere che disseminavano di tulipani erbosi tappeti, lasciando ai semi rubino il tingere le acque dei torrenti, a filari di tamerici accompagnare il corso dei fiumi, a fiori di mandorlo incipriare le valli.
Al galoppo cavalli selvaggi segnavano confini.
Segnavano confini perché gente straniera li valicasse per attraversarli o divenirne parte, mentre candidi shalwar delineavano corpi di uomini guerrieri, arcobaleni di burqa celavano donne regine.
Da antico tempo come da sempre.

Ahmad seguì le settimane. i mesi, gli anni, i secoli, come da sempre lungo le parole del padre di suo padre.
Ahmad seguì la storia.
Lo fece nella voce del ricordo, delle immagini, mentre al galoppo cavalli selvaggi segnavano confini.
In essi, in quei confini, gli uomini guerrieri intrecciavano gabbie di giunco, in essi creavano gioielli verdi di smeraldi, azzurri di lapislazzuli. Come le valli, le notti.
Valli che s’aprivano tra i letti delle acque, valli vivide di scontri, d’incontri, valli disseminate di storia raccolta tra drappi pietrosi di sacre figure nelle grotte di Bamiyan.
E le notti, oh, le notti, erano morbidi scialli stellati, che avvolgevano la stessa storia. Una storia antica come gli uomini, le donne, i bambini. Antica come antico tutto laggiù.

Ahmad osservava lungo le parole del padre di suo padre.
Le parole trascorse.
Nei loro suoni gli stessi guerrieri con rami di salice creavano culle, per tingerle poi di giallo e di rosso, d’ arancio e d’ azzurro, perché la vita dei figli avesse colore.
Nei loro suoni donne regine con fili di lana tessevano racconti, silenziosi racconti su cui posare, alla sera, la fatica del giorno.
Cavalli selvaggi al galoppo custodivano confini nel suono della voce del padre di suo padre.
Confini percorsi da corde sottili, tenaci come steli di fiore aperti in bocci d’aquilone che il vento sospingeva da oriente a occidente da occidente ad oriente.
Al suolo cavalli selvaggi al galoppo abbracciavano confini.

Ahmad guardava ogni angolo di quella sua terra in cui tutto ciò che fosse creato, anche il più perfetto degli oggetti, venisse lasciato imperfetto, la perfezione fosse lasciata a Dio, l’uomo si tenesse sempre, comunque ad un passo da Lui.
E mentre i cavalli correvano lungo i confini di quella madre, essa partoriva figli guerrieri ch’erano poeti.
Ma questo al di là del suo grembo nessuno sapeva o, forse, aveva dimenticato.
Fu così che Ahmad iniziò a leggere poesie.
Leggeva poesie sull’eco dell’avo ricordo, sulla scia dell’antica voce. Stava leggendo poesie anche quel giorno, quando una diversa eco giunse ululato da nord.
Ululato frantumò i confini, abbatté i cavalli, interruppe l’abbraccio.
Ahmad alzò lo sguardo dalla poesia, vide sciacalli invadere la sua terra.

A quella vista si ritirò sui monti o forse così credé.
Era lì quando una notte di invernale solstizio intravide un bagliore di lanterna.
Ahmad lo seguì.
Sempre più forte il bagliore evidenziò le cose, tutte le cose, sino a divenire luce come fosse giorno, finché così, come fosse giorno assoluto ed ampio, illuminò l’intera sua terra entro quegli ormai improbabili confini.
Per qualche istante Ahmad divenne deserto, torrente, tulipano, si sentì canto di minareto, canto d’uccelli a grappolo tra i rami dei champak.
Nella chiarezza di quella luce, Ahmad vide infrangersi il turchino delle moschee, i minareti non più svettare verso il cielo, vide trasformarsi il rubino dei torrenti, udì assordato da tuoni il tappeto erboso del tulipano. Il tempo non più scandito dalla voce amica del muezzin.
Il silenzio degli uccelli tra i champak.
Quel che parlò al cuore, alla mente di Ahmad fu un unico pensiero: l’eterno attimo della poesia era terminato.
Sperò sospeso.
Ahmad indossò sembianza di guerriero.

In quella sembianza calcò il passo su quel suolo che gli apparteneva per nascita, calcò il passo lungo le stagioni, gli anni. Segnò battaglie sulla sua terra, segnò vittorie e sconfitte.
Nei tempi sospesi, in quelli silenziosi dell’attesa tra una battaglia e l’altra, al tramonto, alla sera, assisi sicuri su racconti intrecciati con fili di lana, Ahmad ai suoi uomini leggeva poesie.
Nel suono dei versi scanditi dalla sua voce, gli uomini guerrieri si ritrovavano, ritrovavano il loro tempo, la loro storia.
Ritrovavano le carovane, la bianca polvere del deserto, il canto degli uccelli a grappolo tra i rami dei champak.
Sulla sua voce si nutrivano per la battaglia, per la libertà di quella loro terra.
Questo accadde lungo le stagioni, gli anni.
Questo accadde lungo dieci anni.
Un giorno di primavera, indiscussa certezza di Dio, costretto dagli uomini guerrieri, dall’antica tenacia mai scalfita dal tempo, lo sciacallo fu preso da fuga, rientrò nella tana, nella tana del nord.
Al di là dei confini.
Grande fu la vittoria.
Il canto amico del muezzin tornò a scandire il tempo, la preghiera, a fondersi con quello degli uccelli, a grappolo tra i rami dei champak.
Ma qualcosa era accaduto, qualcosa aveva cambiato il corso al galoppo dei cavalli selvaggi che ora segnavano altri confini.
Grande fu la vittoria. Breve il suo tempo.
Il tappeto erboso prese a fiorire soltanto alle pendici dei monti tra le rocce di smeraldo e lapislazzulo, la terra incipriata dal mandorlo, soltanto alle pendici dei monti.
Grande era stata la vittoria, fugace il suo corso.
Ahmad ed i suoi uomini ben presto videro un’oscura nube di corvi ad ali spiegate avanzare da sud.
Ripresero crudeli battaglie alle pendici dei monti, il deserto ancor si assordò, mentre i ciottoli degli arsi torrenti s’ arrossarono di umano vermiglio colore.
L’oscura nube spezzò l’antica corda dell’aquilone che si strappò precipitando al suolo frammenti di carta, frammenti di voli, di sogni innocenti.
Più non vi furono colori di culla, non più riposo intrecciato a racconti di lana, né abiti in fiore di spose fanciulle, né canti, né giochi di bimbo.
Le donne regine ancor più si nascosero dietro la fitta rete del burqa…
…a scomparire.
Estranea voce cantò il muezzin. Il papavero soffocò il tulipano mentre cavalli impazziti segnavano diversi confini.

Allora Ahmad si rivolse al mondo oltre quei confini, lì, dove il sole volge al tramonto. A quel mondo supplicò aiuto per la sua terra, ma il mondo, aveva perso l’udito e, dimentico, restò a guardare.
Dinanzi alla sordità di quel mondo, Ahmad acuì la vista.
Scrutò, scrutò finché vide un burattinaio, quello al momento più abile.
Lì, all’estremo del tramonto, un burattinaio si divertiva a costruire neri corvi di cartapesta per poi lasciarli liberi d’oscurare i cieli, di impedire il volo agli aquiloni, di soffocare i canti, di frantumare la storia nei drappi pietrosi delle grotte di Bamyan.
Benché fosse questa la vista, Ahmad non si arrese.
Con i suoi uomini continuò la battaglia, continuò a cacciare corvi che ad ali spiegate oscuravano il cielo spargendo tenebra sul tappeto erboso del tulipano.
Continuò a leggere poesie negli intervalli di quella battaglia, mentre il tempo della sua terra sempre più entrava nel gioco morsa del burattinaio scandito dall’estranea voce di un muezzin che, in maschera, svendeva al tramonto l’indiscussa certezza di Dio.

Il suono delle parole del padre di suo padre si fece lontano, si perse.
Si spense.
La primavera più non fu indiscussa certezza di Dio.
Nell’ ocra ombra d’un ultimo autunno, gelida carezza, l’inganno raggiunse Ahmad.
Era lì, alle pendici dei monti, lì dove le tamerici non avevano mai smesso di seguire il corso dei fiumi, dove lo smeraldo non aveva mai smesso di risplendere, né il tulipano di sbocciare, né la poesia di nutrire.
Era lì, il corpo delineato dal candido shalwar, come da sempre, il passo scandito dalla solitudine, come non mai. Lì, quando, sotto umana sembianza, due corvi di cartapesta manovrati da fili distanti, gli furono accanto.
Ahmad non s’accorse della menzogna nei loro sguardi, di quella nelle voci, li credé uomini inviati dal mondo del tramonto per un ultimo aiuto alla sua terra.
Quello decisivo, della vittoria.
Quello che avrebbe permesso al suo popolo la libertà.
Ahmad non s’accorse, forse perché, guerriero, era un poeta.
Vi fu un solo fragore, poi fumo…silenzio.
Ahmad entrò nel silenzio.


Così interrotto fu il passo, il tulipano, il valore.
Interrotto l’incipriarsi delle valli, il corso dei fiumi, il verde dei gioielli, i racconti intrecciati.
Soffocata l’indiscussa certezza di Dio si vuotarono le culle.
Cavalli selvaggi in ultimo galoppo cancellarono confini.
Per fermarsi.
In ultimo galoppo s’arrestarono alla fioca luce d’una lanterna, poi, con passo leggero, arcuato, divennero alati seguendo una stella.
Alati sorvolarono corvi, attraversarono in volo la terra di Ahmad per entrare con lui nella storia del c’era una volta l’Afghànistàn…

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