La storia segreta del quarto Re Magio – Geminello Alvi

Di Geminello Alvi

Una brezza sbatteva con dolcezza tra loro le foglie del gran albero fiorito al centro di un prato di piccoli trifogli dove pavoni e anitre della Cina dondolavano accanto a cespugli di rose d’ ogni colore. I petali atterravano sulla sottilissima pellicola d’ acqua increspata dal gocciare della gran fontana che durava lento e batteva col ritmo del mio cuore. Fu lui Zaratustra, colui che abbracciò l’ angelo che risuona ed è la vita del Sole, a volere che i templii di Persia venissero cinti di giardini senza uguali altrove: perché chiunque vedesse che il tempo è un’ eternità ritardata. Anch’ io lo vidi. Quello che gli uomini chiamano tempo è il trucco di Arimane, dio dell’ odio, della tenebra e della fretta. Toccò a me che ero il più giovane recitare davanti agli altri sacerdoti i versi dell’ Avesta: “La potente aura del sole etereo che incarna la profezia regale di Aura Mazdao veneriamo: lui che migrerà nel salvatore e negli altri suoi apostoli; che compirà la terra; che le concederà di superare vecchiaia e morte, marciume e putrefazione, e che la porterà alla vita eterna…”. Mi salutarono e andai. Nel tempio delle sette sfere a Babilonia Gaspare, Melchiorre e Baldassarre mi attendevano. Avevo otto giorni per raggiungerli, e andare noi quattro, assieme, verso quel Segno dei Pesci, dove c’ è Israele e dove il Saoshyant, salvatore e sole, sarebbe nato. Avevo venduto tutto per acquistare i miei doni: un rubino, uno zaffiro, una perla; grossi come ciliegie. Ero beato. Invece ero già l’ uomo sciocco e precipitoso che avrebbe, a lungo, vagato. Al mattino carezzai il muso nero di Vasda, il mio cavallo, prima che venisse sellato. Lui lasciò che la mia felicità lo contagiasse. Corremmo nell’ aurora, sulla bruma biancastra; fu come andare attraverso le nuvole del cielo.

Babilonia la grande dista da Ectabana 160 parasanghe, e gli occhi di Vasda avevano la innocenza di chi non ha mai pensato; ritmai il mio viaggio in venti parasanghe al giorno. Traversammo il fiume Oronte dove era più verde, sollevammo in volo stormi di uccelli, calpestammo la morbida fertile terra di Concabar, gli odori dei giardini del Baghistan ci pervasero. Rallentammo prudenti davanti alle montagne. Vasda odorò i tamarindi, i fichi e le pesche sugli alberi. Poi vennero i tetti dorati di Ktesifonte, la Seleucia, e i campi di grano tra il Tigri e l’ Eufrate. E arrivammo alle mura di Babilonia: il tempio delle sette sfere dove gli altri tre inviati m’ avrebbero atteso fino alla mezzanotte non distava che tre ore. Ma era quella una notte senza luna; dovetti rallentare.

Col muso inclinato a tastare la strada ch’ era un poco in salita, Vasda respirò nervoso prima di arrestarsi. Scesi da cavallo. E inciampai in un corpo. Mi parve cadavere. La religione di Zaratustra impone di seppellire i morti. Scavai in quella terra ch’ era durissima, quanto bastava a evitare che i cani divorassero quel corpo leggero. Ma appena lo presi in braccio, vidi ch’ esso ancora respirava. Le stelle giravano intorno alla stella polare, la mezzanotte era prossima. Cercai l’ acqua con cui inumidire le labbra di quell’ uomo, e intanto lo maledivo. L’ uomo si riprese. Era ebreo, ma capiva la lingua dei parti. Gli diedi tutto il pane che avevo per liberarmene prima, e gli indicai dov’ erano le case dei suoi simili a Babilonia. Quando disse che il Salvatore sarebbe nato non a Gerusalemme, ma a Bethlehem gli credetti. Poi giunsi a quel tempio, dove Gaspare, Baldassarre e Melchiorre calmi avevano atteso invano. Lanciai Vasda nel deserto. Schiumava; senza pietà lo forzai. Affannato mi sentii fatto di vuoto. Il respiro di Vasda divenne cavernoso, ma seguitò a obbedirmi, non rallentò. Morì impuntandosi di colpo; girando la testa per guardarmi. Gettai in aria la mia tunica e corsi; corsi finché le gambe non presero a confondersi e a intrecciarsi. Quando non mi ressero, strisciai sulla terra secca e dura dell’ altopiano: fino a consumarmi la pelle delle ginocchia. Solo il sorgere dell’ aurora mi persuase di tornare a Babilonia. Per pagare i cammelli e le guide, vendetti lo zaffiro. Stringendo in pugno il rubino e la perla non vinsi la mia ansia. Ripartii; ammalato dalla fretta diressi verso occidente, solo alla ricerca di quel Salvatore profetato dai libri dell’ Avesta.

Attraversai il deserto; neppure il silenzio mi calmò: vidi sciacalli e leoni contendersi il mio prossimo cadavere; né cedetti alle febbri. Gli orti e gli alberi da frutta di Damasco, i fiumi azzurri, le rose, neppure quei monti viola mi consolarono. Scesi lungo le rive verdacee del Giordano, attraverso le colline di Ephrahim e la Giudea. A Bethlehem dei pastori spiegavano d’ aver visto certi stranieri vestiti come me in una stalla, mentre veneravano un bimbo. Precipitai nella più cupa vergogna. Non rincorsi i miei fratelli magi; vagai e ovunque domandai del bambino che era nato. Ma nessuno sapeva dove fosse. A Bethlehem mi ospitò una vedova ch’ aveva un figlio neonato; mi disse di aver visto la madre del bambino che i tre re magi avevano onorato. Era, senza spiegazioni, fuggita in Egitto. M’ avviai verso la porta. Un urlio, all’ inizio, fioco e confuso al vento, quindi crescente, mi distrasse. Erano urla di donne, quelle che subito dopo vidi correre via rincorse da soldati. Essi strappavano i loro figlioletti dalle braccia, li gettavano a terra e li calpestavano o ridendo gli staccavano a spadate la testa. Uno di quegli sgherri, che aveva il testone incassato tra le spalle come un rospo si diresse verso di me. Non ebbe il coraggio di guardarmi; e però m’ avvertì che dovevo farmi da parte, doveva entrare in casa: come aveva ordinato il suo re Erode uccidere anche quel neonato. Io non mi mossi. Lui tornò col rinforzo d’ altri soldati. Deposi la mia perla nella sua mano. Se ne andarono tacendo. Avevo dato a degli uomini per la seconda volta quanto era d’ un dio. Ripartii per l’ Egitto. E là cercai, ovunque cercai, dimenticai di mangiare e bere. Mi sentii indegno di tornare in Persia, vagai. Mi ritrovai in luoghi infimi. La pazzia e la miseria mi umiliarono a meno di un uomo. Non trovai alcuna traccia del Salvatore. Ma per trent’ anni seguitai, confuso, a cercarlo.

Il rubino rimase la mia unica ricchezza, lo tenevo sempre in mano. Ritornai a Gerusalemme, quando già non mi importava dove vivere e quanto. Divenni pastore. Le rondini nerastre volavano basse sopra le greggi e le mura dorate dal sole. Dimenticai persino i versi dell’ Avesta. Ma non conobbi la quiete di chi invecchia. Quando un legionario di Roma disse che Gesù di Nazareth il crocefisso era il re dei re, capii che era vero. Ma invano corsi dove era stato crocefisso, stringendo il rubino in mano. L’ avevano portato via il suo cadavere. Vidi il cielo oscurarsi; la notte un terremoto aprì larghi squarci nella terra. Piansi come piangono i bambini. Tornai al mio confuso silenzio, spiando il volo inclinato delle rondini sui prati basso prima della pioggia. M’ avvidi che il mio tempo non era più quello degli altri uomini, solo perché vidi morire le greggi e i nipoti dei nonni ch’ avevo visti bambini. Non capii perché, il tempo prolungava così la mia miseria. L’ accettai. In questa fredda mattina mi sento tuttavia come ero prima di partire. Ogni rimorso s’ è sciolto in una gran pace. Io sono seduto sotto un albero e in mano ho il mio rubino; dacché lo possiedo, per la prima volta, tenendolo non lo stringo. Mi viene vicino un uomo giovane, anche se vecchio. Lo riconosco. Mi chiede il rubino. Glielo do. Domani mattina gli uomini troveranno il mio cadavere. Qualunque tempo è soltanto un’ eternità ritardata.

 

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